Recensioni
Il pastore d'Islanda, Gunnar Gunnarsson
Mondi tra le righe
Il compito dell'uomo
Siamo a metà estate e il caldo si è fatto insopportabile. All’ombra fa caldo. Al mare fa caldo. In montagna fa caldo. Fa caldo anche di notte. Quindi perché non proviamo a sfuggire dalla calura e a rifugiarci sui monti innevati? Magari proprio durante una bella tormenta di neve.
Oggi parliamo del Pastore d’Islanda di Gunnar Gunnarsson e sì, il nome è proprio quello, non sono impazzita a causa del caldo.
Ma prima di dedicarci alla storia e agli splendidi paesaggi innevati che la caratterizzano, parliamo della mente che sta dietro a questo racconto!
Gunnar Gunnarsson nasce nel 1889 in una famiglia povera, più precisamente una famiglia contadina. Perde la madre quando è molto giovane e durante l’adolescenza si dedica all’attività di famiglia frequentando però anche la scuola e dedicandosi alla scrittura. A diciassette anni pubblica il suo primo libro di poesie e a diciotto entra alla Folk High School in Danimarca. È qui che prende due importanti decisioni: la prima è seguire la vocazione di scrittore, la seconda è quella di scrivere in danese, così da raggiungere un pubblico più ampio.
Nel 1939 decide di tornare in Islanda e costruire una fattoria che oggi è un museo in suo onore. La fattoria si trova a Skriðuklaustur nella Valle di Fljótsdalur.
È nel 1940 che viene scritto e pubblicato Il pastore d’Islanda.
Il Pastore di Islanda è un libro molto corto, la storia effettiva si aggira attorno alle quarantacinque pagine, questo però non vuole dire che la trama sia semplice o senza significato.
Seguiamo il viaggio di Benedikt che nel giorno dell’Avvento si incammina alla ricerca di alcune pecore che si sono perse durante il pascolo. Ad accompagnarlo nella ricerca ci saranno due fidati amici, non persone ma animali. Un montone chiamato Roccia per la sua testardaggine e tenacia, il cui compito è quello di indicare la strada, e il cane Leo che dovrà radunare le pecore quando le avranno trovate.
Se le troveranno.
Questa però non è la prima volta che Benedikt si avventura sulle montagne, in realtà è il ventisettesimo anno di fila.
Benedikt inizia a essere stanco, vecchio e desideroso che qualcuno sia disposto a sostituirlo.
Durante il viaggio, reso difficile dalle condizioni atmosferiche, perché infatti scoppia pure una tormenta, Benedikt incontra facce amiche che lo accolgono, ma anche momenti di turbamento e paura quando trova alcune pecore, che avrebbe dovuto salvare, morte.
È qui che Benedikt inizia a rendersi conto di essere minuscolo. Si accorge che la sua vita è un semplice battito di ciglia davanti alla grandezza del mondo. Si domanda se quando sarà morto qualcuno prenderà il suo posto e andrà alla ricerca delle pecore disperse, se qualcuno si prenderà quella responsabilità. Molte volte sembra sul punto di arrendersi, ma proprio il senso di responsabilità nel riportare le pecore a valle è troppo forte.
Qui voglio citarvi una piccola frase del libro che sta a pennello con quello che ho appena detto:
“È questo il compito dell’uomo, forse l’unico al mondo: trovare una soluzione. Non darsi per vinto. Rivoltarsi contro il pungolo, per quanto sia tagliente, perfino contro quello della morte, fino al giorno in cui gli penetrerà il cuore. Ecco il compito dell’uomo. Se le gambe si rifiutano di proseguire rinuncerà ad usarle, ma non per questo si darà per vinto”.
Trovo che sia la perseveranza umana il punto focale di questo libro.
Non dirò se Benedikt riuscirà nella sua impresa, perché la scoperta la voglio lasciare al lettore che sicuramente correrà subito a comprare questo libro.