Recensioni
I miei stupidi intenti, Bernardo Zannoni
Mondi tra le righe
C'era una volta una faina di nome Archy
Fin da piccolo ho sempre avuto una passione per le fiabe, raccontarmene una non serviva a farmi addormentare, ma solo a farmi venire voglia di ascoltarne un’altra.
Con gli anni la mia passione non ha fatto che crescere, citando una pubblicità di inizio anni Duemila, non ce la faccio a stare senza, le ho provate tutte: arabe, islandesi, dei fratelli Grimm, ma mai nessuna è come I miei stupidi intenti.
Prima di iniziare credo sia giusto dire due cose sull’autore, Bernardo Zannoni.
Da quel che lui stesso dichiara, sulla pagella aveva un cinque fisso in italiano, ha frequentato per un breve periodo la Scuola Holden, ma non l’ha conclusa, e preferisce la musica alla letteratura.
Eppure nel 2022 è diventato il più giovane vincitore della storia del premio Campiello, forse il secondo premio letterario in Italia per importanza dopo il premio Strega.
Come è riuscito Bernardo in questa impresa?
L’unico posto in cui cercare una risposta è il suo romanzo.
Tutta la fiaba è narrata in prima persona dalla faina Archy e inizia poco dopo la sua nascita.
Il padre di Archy sfama la famiglia facendo razzie nei pollai, ma un giorno viene sorpreso e ucciso da un contadino. Sua madre non ha abbastanza forze per allattare e cacciare contemporaneamente, perciò deve fare una scelta e, guidata da un forte istinto animale, decide di dare il poco latte che ha ai figli più forti, lasciando morire quelli più deboli.
Archy è a metà in questa scala gerarchica, e le prime settimane della sua vita sono caratterizzate dal terrore della fame. Tuttavia riesce a sopravvivere, e appena diventato abbastanza grande esce dalla tana per andare a caccia. Non vuole che la sua sopravvivenza dipenda mai più da qualcun altro.
Vagando tra i boschi, vede un nido su un albero e pensa di rubarne le uova. Si arrampica, ma arrivato quasi in cima scivola, cade e si frattura una zampa. Riesce a tornare alla tana, però ora per sopravvivere dipende dal cibo che i fratelli e la madre gli regalano. Lei però non ha intenzione di tenersi questo peso accollato in eterno, e quando diventa chiaro che Archy non camminerà più come prima, decide di venderlo alla volpe Solomon in cambio di due galline.
Prima di andare oltre vorrei discutere con voi di come Bernardo utilizza una metafora tipica delle fiabe, ovvero rappresentare il genere umano attraverso gli animali.
Solitamente i personaggi delle fiabe di animalesco hanno solo l’aspetto, emotivamente sono completamente umani, al massimo un po’ caricaturali. Bernardo invece decide di lasciare la metafora a metà, i suoi animali non hanno perso i loro istinti, come appunto la madre di Archy che lascia morire di fame i figli più fragili, senza pentimento. O anche Archy stesso che, prima di essere venduto dalla volpe, ha una relazione incestuosa con una delle sue sorelle.
Eppure, dall’altro lato, quando i personaggi prendono una decisione razionale lo fanno pieni di rimpianti, dubbi e paure, quindi in modo molto umano.
Bernardo crea così un accostamento che comunica in modo estremamente diretto l’idea fondante di questa fiaba, ovvero che non c’è differenza tra umani e animali. Ma ora torniamo alla trama.
Archy passa la seconda parte della sua vita assieme alla vecchia volpe Solomon e al suo braccio destro, un grosso cane da guardia. Per vivere prestano cibo ad altri animali, sostanzialmente sono due strozzini.
Archy viene usato come un tuttofare. Lava, cucina, si occupa delle galline. Poco dopo il suo arrivo, la faina scopre che la volpe ha un segreto: è in grado di leggere e scrivere.
In quella che forse è una similitudine con il mito di Prometeo, Solomon ha rubato la conoscenza agli esseri umani, e questo ha fatto ricadere su di lui una sorta di maledizione.
Ha imparato a leggere dalla Bibbia, ha letto della morte e di quello che dovrebbe venire dopo, ma la Bibbia si rivolge alle persone, non agli animali.
Solomon ha quindi capito che dopo lo attende solo il nulla, e l’idea lo terrorizza. In Archy vede un possibile erede, un contenitore attraverso cui far sopravvivere almeno una parte di sé.
La volpe vuole plasmare Archy a sua immagine e somiglianza. Comportandosi come un padre violento e autoritario, cerca di inculcargli a forza la sua visione della vita, ovvero che il mondo è solo un covo di insensato dolore, in cui i più forti possono sopravvivere un po’ più a lungo dei deboli, ma che alla fine anche loro sono destinati come tutti a una fine misera e ingloriosa.
Per quanto Archy si sforzi di rigettare questa visione, sembra che non sia solo la vecchia volpe a volergliela insegnare, ma il mondo stesso.
Per spiegarvi questo concetto devo parlarvi di come Bernardo utilizza i suoi personaggi.
Inizierei dividendoli in tre macrocategorie. Archy, la volpe e tutti gli altri.
Archy è il protagonista, ma anche la personificazione del lettore. Nasce mentre noi iniziamo a leggere e condividiamo con lui ogni esperienza. Sappiamo quello che sa lui e impariamo assieme a lui quello che il romanzo ci vuole dire.
La volpe invece credo rappresenti Bernardo stesso. La visione del mondo dell’autore e quella di questo personaggio coincidono perfettamente.
E infine tutti gli altri, che servono solo da esempio materiale delle parole della volpe.
In questa fiaba il lieto fine non esiste.
La sorella di cui Archy si era innamorato finisce uccisa quando il nuovo compagno della madre scopre che è incinta. Il cane, braccio destro di Solomon, partirà alla ricerca della madre mai conosciuta e vagherà senza meta per il resto dei suoi giorni. Solomon stesso muore senza pace o dignità, malato nel proprio letto, terrorizzato dal buio che lo aspetta.
Dopo la morte della volpe, per una manciata di pagine, sembra quasi che almeno Archy possa avere il suo lieto fine. Riesce a trovarsi una compagna, hanno un figlio, ma poi arriva l’inverno e il nostro protagonista zoppo non è in grado di procacciare cibo per la sua famiglia. Dopo giorni di digiuno, Archy arriverà al punto di voler mangiare il suo stesso cucciolo, ma scoperto dalla compagna verrà fermato prima che sia troppo tardi, e poi allontanato da entrambi.
Archy invecchia scrivendo le proprie memorie, terrorizzato all’idea che un giorno il figlio possa tornare a vendicarsi, ma sotto sotto, anche desiderando che accada. Alla fine, un altro animale entra nella sua tana per rubargli del cibo e finisce con l'ammazzarlo, in perfetto accordo con la visione di Solomon.
Prima di concludere lasciatemi dire due parole sullo stile.
Bernardo va dritto all’essenziale, il suo modo di scrivere ricorda a tratti quello della Kristof, che lui stesso cita come fonte d’ispirazione. Non si perde quasi mai in descrizioni non necessarie, e anche grazie a questo, la storia ha un ritmo molto veloce. Ogni avvenimento occupa il numero indispensabile di pagine per poi lasciare il posto a quello successivo.
Questo si unisce a una scelta quasi poetica delle parole, la sua passione per la musica è evidente, e credo non ci sia modo migliore per farvelo capire di mostrarvi l’inizio del romanzo:
“Mio padre morì perché era un ladro. Rubò per tre volte nei campi di Zò, e alla quarta l’uomo lo prese. Gli sparò nella pancia, gli strappò la gallina di bocca e poi lo legò a un palo del recinto come avvertimento. Lasciava la sua compagna con sei cuccioli sulla testa, in pieno inverno, con la neve.”
Chiuderei anche così, inutile dilungarmi oltre, tanto avete già capito che ho adorato questo romanzo.
Ma prima di andarmene, voglio lasciarvi con un piccolo indovinello.
Se ogni favola ha una morale, qual è quella di questa storia?