Recensioni

Autobiografia di mia madre - Jamaica Kincaid

Mondi tra le righe

ADELPHI 2020

La mia vita era molto più che vuota

Xuela è venuta al mondo nello stesso istante in cui sua madre moriva. E questo non può dimenticarlo. Di più, questa condizione di sradicata sembra essere il suo pensiero principale, e la sua condanna. Perché la vita di Xuela, figlia di una madre caraibica e di un padre per metà scozzese e per metà africano, è costellata dal dolore. Dolore passato, presente e futuro che si intrecciano in un groviglio disumanizzante che mette il lettore davanti alla storia di una donna che non sembra prevedere redenzione. Ma per Xuela non è questo quello che importa, in fondo a lei basta aggrapparsi con più forza possibile alla consapevolezza di essere, semplicemente, viva.

“Mia madre è morta nel momento in cui nascevo, e così per tutta la mia vita non c’è mai stato nulla fra me e l’eternità; alle mie spalle soffiava sempre un vento nero e desolato.”

Ma non è solo il lutto che colpisce la vita di questa ragazza. Nell’ordine: viene affidata alle cure di una donna che non prova nulla per lei, ritorna nella casa paterna solamente per scoprire che la sua matrigna la odia con tutta sé stessa, finisce ospite di una coppia di anziani tutori europei che la introducono nella loro relazione di coppia, si innamora di un uomo sbagliato e di sposa con un uomo che non ama affatto. Questo solo per grattare la superficie. Come detto, non è una vita semplice quella di cui si legge all’interno del libro, ma non è neanche una vita che ha rinunciato a lottare. I drammi di Xuela si sovrappongono al lento scorrere della vita nella sua comunità, al lento fiorire e avvizzire del suo corpo e all’incontenibile flusso di sentimenti e pensieri che attraversano la sua mente. Xuela non rappresenta niente, non vuole essere portavoce di nulla se non della strabiliante unicità della sua esistenza. Non è interessata a mischiarsi agli altri e non cede mai all’autocommiserazione. Quel taglio netto del cordone ombelicale con chi le ha dato la vita la ha relegata in uno spaziotempo indefinito; infinito e allo stesso tempo finitissimo. Tutto in lei dura un attimo, non ha un inizio e, men che meno, una fine. Xuela diventa un essere vivente al di fuori della storia.

Ma noi, che leggiamo queste pagine dense di dolore, a tratti indescrivibile per quanto sia disumanizzante, percepiamo Xuela come carne e sangue. Ne sentiamo lo straziamento e, a tratti, siamo tentati di sfuggirgli. Non ho letto negli ultimi anni un libro che sapesse restituire con tanto vigore il dolore, nella sua accezione più cruda e terribile. Ma non per questo lo stile di Jamaica Kincaid si lascia andare verso il grottesco o l’esagerazione; sono parole semplici, chiare, le sue, che si incatenano con una facilità disarmante. 

“La mia vita era molto più che vuota. Non avevo mai avuto una madre, mi ero appena rifiutata di diventarlo, e sapevo già allora che quel rifiuto sarebbe stato assoluto. Non sarei mai diventata una madre, ma questo non sarebbe stato lo stesso che non avere mai bambini. Io avrei avuto dei bambini, ma non sarei mai stata una madre per loro. Ne avrei partoriti in abbondanza; mi sarebbero usciti dalla testa, dalle ascelle, di fra le gambe; avrei partorito dei bambini, mi sarebbero rimasti appesi addosso come grappoli su una vite, ma io li avrei uccisi con l’indifferenza di un dio. Avrei partorito bambini al mattino, a mezzogiorno avrei fatto loro il bagno in un’acqua che sgorgava da me stessa, e a sera li avrei inghiottiti interi, tutti in una volta. Sarebbero vissuti, e poi non sarebbero vissuti più. In quel giorno che durava la loro vita li avrei portati sull’orlo di un precipizio. Non li avrei spinti io; non ce ne sarebbe stato bisogno; a chiamarli dal fondo sarebbero state le dolci voci di piaceri inusitati; i bambini non si sarebbero placati finché non fossero divenuti tutt’uno con quei suoni. Avrei coperto i loro corpi di malattie avrei ornato la loro pelle con piaghe dalle croste sottili, piaghe che a volte avrebbero trasudato un pus denso del quale avrebbero avuto una gran sete, una sete che non si sarebbe mai potuta spegnere. Li avrei condannati a vivere in uno spazio aperto, irrigiditi nella stessa posizione in cui erano nati. Li avrei gettati da una grande altezza; ogni osso del loro corpo si sarebbe rotto e non si sarebbe mai aggiustato bene, si sarebbe saldato così come si era rotto, non sarebbe mai guarito. Quando fossero stati solo dei cadaveri li avrei adornati e avrei sistemato ogni cadavere in una cassetta di legno lucidato, e avrei messo la cassetta di legno lucidato nella terra, e avrei dimenticato la parte della terra dove l’avevo sotterrata. È in questo modo che non sono diventata una made; è in questo modo che ho partorito i miei figli”.

Cosa resta, dunque, alla fine di questa storia?
Non è la domanda giusta da porsi in casi come questo. Non si tratta di una lettura educativa, o di una narrazione che abbia come fine ultimo quello di lasciare un’impronta nella vita di chi vi entra. Quel che posso dire dal canto mio è che è proprio l’esperienza di lettura quella che lascia il segno. Si percorrono tutte le pagine in uno stato di agitazione e incantamento, e quando il sortilegio finisce si prova un senso di sollievo, subito prima di rammaricarsi per aver già finito. Questo libro non sembra avere inizio, e nemmeno una fine. Proprio come Xuela.

Eugenio Manuelli

ASSOCIAZIONE CULTURALE LA COPERTINA
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Partita IVA: 13238190964
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NUM. ISCRIZIONE AL RUNTS: 1152431

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