Recensioni
Augure, Baloji
Dietro le quinte
OPERA
L’ultima rassegna prima dell’inaugurazione vera e propria prevista per il FescAAAl 2023 è ha visto la proiezione nella sala del cinema Godard di Augure, opera prima del regista e cantante Baloji, vincitrice a Cannes del Premio “Un certain regard".
Un ritorno negli inferi del passato, dalla funziona catartica, grazie al quale lo stesso regista, alter ego di Koffi, rielabora la morte del padre e il suo stesso sradicamento.
TEMI E PERSONAGGI
Tradizione e folklore, la condizione della donna e di una madre, il lavoro in miniera, il ritorno in Africa dall'Europa, le coppie miste, la dittatura del passato e la società del presente e altri ancora sono i temi affrontati da Baloji in appena 90 minuti.
Eppure le sensazioni che regnano nello spettatore durante i titoli di coda non sono pienezza e ridondanza, ma curiosità ed empatia. Nel caos di una terra caotica e sterminata come il Congo, le vite di quattro personaggi si intrecciano dando voce agli esclusi della società.
Basta una manciata di secondi per capire tutto di Koffie, il protagonista della prima storia.
Un semplice taglio di capelli della sua chioma afro, da parte della compagna (europea), per inseguire una disperata accettazione dalla famiglia, una volta tornato a casa (assieme allo studio della lingua swahili).
Tornato in Congo è un pesce fuor d’acqua e le continue umiliazioni subite, non fanno che mettere un accento sulla sua figura di antieroe, che come il regista, torna nella terra natia dopo averla abbandonata e ne condivide i maltrattamenti subiti da piccolo.
Koffie però non è solo il classico esule, ma è più strutturato e allo stesso tempo funge anche da filo rosso della narrazione. Infatti, mentre la figura di Koffie è condannata dalla stregoneria, Paco, il secondo protagonista, un ragazzino a capo di una gang criminale, invece l’abbraccerà e cercherà la salvezza proprio attraverso la dimensione spirituale. Dimensione animista che non è mai oggetto della critica di Baloji a differenza della religione e del cattolicesimo. Tra maschere, musica tradizionale e danze, le gang criminali di Kinshasa si scontrano decretando un vincitore che è il più vinto di tutti.
Sarà sempre Koffie a condurci dagli altri protagonisti, prima all’interno della sessualità non canonica di sua sorella Tshala, un’altra potenziale esule, costretta a scappare dalla tradizione per poter vivere senza il peso del giudizio sulle spalle; e poi nel dramma di Mama Mujila, personaggio attorno a cui è costruita tutta la narrazione nonostante entri nel vivo della storia solo in un secondo momento.
Con un ribaltamento del punto di vista lo spettatore è costretto a ritirare il giudizio negativo che ha di lei e a empatizzare col suo dolore. I temi della femminilità, dell’accettazione della figura maschile e soprattutto della depressione post parto diventano centrali. In particolare quest’ultimo, estremamente complicato da analizzare in maniera frontale, viene trattato con delicatezza grazie all’uso del realismo magico che offre l’eloquente unione del sangue mescolato col latte che simboleggia un figlio non voluto.
LE IMMAGINI
La ricchezza delle immagini è uno dei punti di forza della pellicola. La street art di Kinshasa, la cultura hip-hop con i suoi graffiti ma soprattutto la danza tradizionale e contemporanea che rompono di tanto in tanto il naturale ordine delle cose ricordano come Baloji sia anche rapper e musicista. Il quadro è infine completato da riferimenti iconografici come il richiamo alla motocicletta del cult del cinema africano di Mambety, contrapposto a riferimenti della cultura occidentale come quello a Peter Pan che accompagna le gang di ragazzini che escludono gli adulti o alla stregoneria europea con la riproduzione di Hansel e Gretel.
Tema della depressione post parto. Sangue insieme al latte di chi non vuole figli. Tema difficile ma rappresentabile attraverso realismo magico per dare una finta distanza
CONCLUSIONE
I destini dei protagonisti ricalcano un po’ le contraddizioni del Congo stesso e della difficoltà a trovare punti in comune.
A partire dalla contrapposizione linguistica causata dall’enorme distanza tra le principali città congolesi e che fanno sentire Koffie accettato solo per un momento quando parla swailhi sul bus con un minatore, mentre per tutto il resto del film domina la lingua popolare che è quella lingala.
Allo stesso modo lo scontro tra tradizione e innovazione di Tshala che nonostante non abbia fiducia, si sottopone assieme al suo compagno a riti animisti per curarsi dalla sua malattia.
E infine il tema della morte e dell'impossibilità di accettarla, da parte di Paco verso la sua sorellina simboleggiata dall inseparabile tiara oggetto dello scontro con Simba, e soprattutto da Mama Mujila che chiude la storia scavando disperata alla ricerca del cadavere di suo marito, senza il quale, non può esistere nemmeno un degno funerale, momento che segna il passaggio definitivo da carnefice a vittima.
Tutti questi personaggi indossano maschere anche quando sono a viso scoperto, maschere che rivelano tanto quanto nascondo, creando indizi su ciò che essi vorrebbero celare.
Lo spettatore può così indagare lentamente, come la lumaca tra i fiori del loculo.