Recensioni
Abbiamo sempre vissuto nel castello, Shirley Jackson
Mondi tra le righe
La follia è un luogo sicuro
Facciamo un gioco, come quando eravamo bambini.
Costruiamo un fortino, facciamolo con le tende e i cuscini, oppure con dei rami o perché no, sbarriamo porte e finestre per non lasciar entrare nessuno. E da chi dobbiamo proteggerci?
Dai fantasmi, dai mostri, da tutte le altre persone del paese, che ci odiano perché sono convinte che abbiamo ammazzato i nostri genitori.
Se avessi una macchina del tempo tornerei nel 1963, e andrei a North Bennington a bussare alla porta di una signora di mezza età che risponde al nome di Shirley Jackson. Per fare cosa?
Niente di speciale, mi presenterei come un suo ammiratore e le chiederei se ha il tempo di fare quattro chiacchere.
Intendo proprio lei
Forse mi inviterebbe a entrare e ci sederemmo in soggiorno, lei mi offrirebbe un the o un caffè, io accetterei il primo, poi inizieremmo a conversare del più e del meno. Farei parlare quasi sempre lei, la osserverei mentre mette il bollitore sul fuoco e mentre riempie le tazze. Cercherei di capire il suo umorismo, di cosa le piace parlare e quali argomenti invece preferisce evitare. Cercherei di notare come tiene le mani, come si rimette a posto i capelli e se è davvero come appare oppure se sta solo interpretando la persona che pensa io voglia vedere.
E perché mai fare una cosa del genere? Per capire come abbia fatto una persona normale, inserita nella società, anche di successo, a conoscere così a fondo la follia umana.
Purtroppo non avrò mai l’occasione di incontrarla, e tutto ciò che mi resta per capire questa donna sono i frammenti della sua vita che si possono trovare in rete e i suoi libri, ed è per questo che oggi, voglio parlarvi del suo romanzo più celebre: Abbiamo sempre vissuto nel castello.
Ora capirete il motivo di tanta inquietudine...
Partirei spiegandovi brevemente la trama, che è molto lineare e comunque non è il fulcro di quest’opera.
Merricat e Constance vivono assieme allo zio Julian nella villa di famiglia. Sono rimasti solo loro tre perché una sera Constance, mentre serviva dei mirtilli alla famiglia, ha confuso lo zucchero col cianuro. Le due sorelle si sono salvate perché non hanno toccato cibo, mentre lo zio è sopravvissuto per un pelo, ma restando invalido. Benché il tribunale abbia archiviato tutto come un incidente, gli abitanti del paese sono convinti che le due sorelle abbiano avvelenato la loro famiglia intenzionalmente e le trattano come due assassine.
Odiate e disprezzate, le due sorelle si isolano rapidamente dal mondo, rinchiudendosi nella casa di famiglia, o come viene chiamata nel titolo, nel castello.
Iniziamo a ragionare su questo elemento: anche se nel libro la casa viene chiamata castello solo alla fine, perché a causa di un crollo assume una forma che un po’ lo ricorda, le due sorelle, soprattutto Merricat, lo considerano tale fin dall’inizio.
In questo romanzo il mondo esterno viene considerato una minaccia, tutto quello che viene da fuori è pericoloso e vuole distruggere la serena vita che le due sorelle si sono costruite. Questo è il primo gradino per scendere nella follia. Una paura condivisibile. Tutti noi, in una certa misura abbiamo paura del mondo esterno, dei cambiamenti improvvisi che possono arrivare come uno tsunami e distruggere la nostra tranquillità. E se tutto intorno a noi ci vuole distruggere, allora ha perfettamente senso rifugiarsi in casa, l’unico luogo sicuro, proprio come se ci stessimo barricando all’interno di un castello.
In questo modo Shirley Jackson crea immediatamente un legame tra il lettore e le protagoniste, e il loro modo di vivere, per quanto strambo, ci sembra una scelta tutto sommato condivisibile.
Durante tutto il corso della storia, il castello è continuamente sotto attacco, e la più grande minaccia che le due sorelle si trovano ad affrontare è un lontano cugino, Charles, che un giorno si presenta alla loro porta.
Inizialmente Charles non sembra avere cattive intenzioni, si trasferisce a casa loro con la scusa di una visita ai parenti e lentamente cerca di convincere Costance, la sorella più grande, a rientrare nella normalità. Le dice che Merricat deve andare a scuola e che non possono vivere isolate per sempre. Sembra quasi rappresentare una via d’uscita per le due ragazze, un modo per tornare alla normalità, ma molto in fretta il lettore si rende conto che è solo interessato alla casa e all’eredità delle sorelle.
In questo modo Shirley Jackson trasforma quello che in un altro libro sarebbe potuto essere il finale, ovvero le due sorelle che si reinseriscono nella società, in una trappola. Ci convince ancora di più che la scelta di Merricat e Constance sia giusta, e scendiamo sempre più a fondo nella follia, che inizia a sembrarci la normalità.
Quando si arriva al punto in cui Constance sta per cedere al cugino, Merricat in un tentativo disperato, fa cadere la pipa del ragazzo nel cestino della carta, causando un incendio. Le fiamme iniziano a divorare la villa e gli abitanti del paese accorrono per spegnerle. Ma quello che all’inizio sembrava un gesto d’aiuto, una possibile riconciliazione tra le sorelle e il mondo, diventa l’ennesimo assalto al castello. I soccorritori, spento l’incendio, si trasformano presto in saccheggiatori e iniziano a rubare tutto quello che possono: argenteria, orologi e perfino mobili.
Le due sorelle scappano nel bosco dietro casa, ma la folla inferocita le insegue e le raggiunge. Le stanno per linciare quando arriva la notizia che lo zio Julian è morto d’infarto e decidono di risparmiarle.
Le due sorelle decidono che non lasceranno mai più entrare qualcuno in casa, e quando il cugino Charles prova a tornare non gli aprono neanche la porta. La separazione dal mondo è completa, e a noi, sembra il finale migliore che ci potesse essere.
Chiudo con quella che secondo me è l’idea più azzeccata di tutto il romanzo, il punto di vista. Tutta la storia infatti è narrata da Merricat e non potrebbe essere altrimenti. Un pazzo è tale solo agli occhi del resto del mondo, ma dal suo punto di vista lui è l’unico perfettamente sano, e se gli parli capirai che nella sua follia c’è una logica perfetta.
Per questo far raccontare la storia a Merricat era l’unico di coinvolgere davvero il lettore nella pazzia della ragazza, al punto che, quando nel finale lei e la sorella ammettono di aver ucciso intenzionalmente il resto della famiglia, tu lo accetti e anzi, ti sembra quasi giusto.
Da quel che sappiamo Shirley Jackson soffriva di agorafobia e non aveva grandi rapporti con la famiglia o le persone che le stavano attorno, e in questo romanzo, l’ultimo che ha scritto, ha probabilmente voluto racchiudere la sua visione del mondo, ovvero che la follia è il luogo più sicuro in cui rifugiarsi.